di Fiore Sansalone
Ogni anno, il 2 giugno, la Repubblica Italiana torna a ricordarci di sé. Bandiere ai balconi, sfilate militari, discorsi istituzionali. Un copione che conosciamo bene, al punto da recitarlo spesso con la mente altrove. Ma oggi, in un mondo lacerato da nuove guerre e vecchie ambiguità, questa festa assume un peso diverso. E forse più scomodo.
Nel 1946, l’Italia scelse la Repubblica. Disse addio a un re che aveva firmato le leggi razziali e taciuto sulla guerra. Scelse, in un gesto di straordinario coraggio collettivo, la democrazia. Ma anche la pace. Il 2 giugno fu, in fondo, un voto per non ricadere mai più negli errori del passato.
Settantotto anni dopo, l’aria è cambiata.
Si parla di difesa comune, di escalation, di spese militari. Si mandano armi “per fermare le armi”, si ripetono slogan europei che sembrano aver perso il contatto con la realtà di chi lavora, vive e spera in una vita normale.
E allora una domanda brucia tra le righe di questa ricorrenza:
che tipo di Repubblica siamo diventati?
Una che promuove la pace nei principi, ma che partecipa silenziosamente a ogni nuovo conflitto? Una che si definisce sovrana, ma che si limita ad approvare ciò che viene deciso altrove – magari a Bruxelles, magari nei palazzi senza finestre della finanza globale?
Il paradosso è evidente.
La nostra Costituzione – quella che nacque insieme alla Repubblica – “ripudia la guerra”. Non la tollera, non la giustifica. La ripudia, parola forte, netta, inequivocabile. Ma questa parola oggi suona come un sussurro. Coperta dal rumore delle diplomazie che non scelgono mai, dai voti parlamentari che si astengono, dai governi che si trincerano dietro l’alibi del “non possiamo fare altrimenti”.
Ma possiamo. Possiamo ancora scegliere di essere cittadini e non spettatori.
Possiamo chiedere a gran voce che la nostra Repubblica non sia complice, ma testimone attiva di pace. Che abbia una voce chiara, non compiacente. Che si dissoci quando serve, che dica “no” se è giusto farlo.
E che guardi in faccia il suo popolo, prima di guardare l’indice della Borsa o i diktat dei vertici europei.
Festeggiare la Repubblica non significa dire sempre “sì”, o applaudire in automatico. Significa, al contrario, esercitare il pensiero critico, avere memoria, pretendere coerenza.
E se da Bruxelles non arrivano segnali limpidi – sulla guerra, sull’ambiente, sulle disuguaglianze – forse è anche colpa nostra, che abbiamo smesso di pretendere, di controllare, di opporci.
Festeggiare la Repubblica, oggi, potrebbe voler dire proprio questo:
alzare la voce per la pace, per la verità.
Per una politica che non giri più attorno ai problemi, ma che li guardi in faccia. Perché la Repubblica siamo ancora noi. Ma solo se decidiamo di esserlo davvero.