Pietro Bianco, nato a Bianchi (piccolo paese della Sila cosentina) il 30 marzo 1839, è uno dei briganti più famosi della Valle del Savuto e di tutta la Calabria.
Riconosciuto dal Tribunale di Catanzaro colpevole di ben centosette reati contro la proprietà e di centodue contro la persona, fu condannato a morte e decapitato a 34 anni d'età, il 19 settembre 1873, nel vallone di Rovito a Cosenza.
Il bisettimanale "Il Calabro" (1869-1906), giornale ufficiale per gli annunci giudiziari, ci racconta la cronaca della sua decapitazione. Erano trascorsi sedici anni dall'ultima esecuzione capitale nella città di Cosenza. Pietro Bianco, prima della condanna a morte, era un pastore e, al passaggio di Garibaldi in Calabria, si arruola nei Mille e partecipa anche all'assedio di Capua (1860), un episodio del processo di conquista del Regno delle Due Sicilie, che portò alla proclamazione del Regno d'Italia. Sciolte le truppe garibaldine, imboccò la strada del delitto e divenne un feroce brigante. A Cosenza non c'era una ghigliottina per eseguire la decapitazione e, per questo motivo, fin dal 15 settembre, erano giunti in città una ghigliottina da Messina e un boia, Michele Garigliano da Catania. L'aiutante del carnefice, un certo Antonio Damiani da Trani (Puglia), arrivò qualche giorno dopo, il 18 settembre. Nella stessa giornata fu notificata a Bianco la sentenza della Corte di Cassazione che rigettava il ricorso e la conferma della sua condanna a morte. L'esecuzione era fissata per le ore 7 del mattino del giorno seguente: la notte si eresse il palco e, all'alba, un pubblico numeroso di ambedue i sessi e di ogni ceto sociale si affolla intorno al patibolo, per assistere alla macabra esecuzione. In mezzo ad un gruppo di preti e carabinieri, Pietro Bianco cammina lentamente, sale a stento i gradini del patibolo, ma, giunto sul pianerottolo, oppone resistenza. Si dimena. Benché sia legato nelle mani, il boia ordina che gli vengano legati anche i piedi. Dopo pochi minuti, viene decapitato. Così termina la storia del brigante Pietro Bianco.

Giuseppe Pizzuti, docente 

Nelle foto, Pietro Bianco
da: "Calabria Mystery"

GRIMALDI - La storia dell'antico Monastero dello Spirito Santo è lunga e ricca di avvenimenti, tanto da renderlo uno dei luoghi più affascinanti di tutto il paese. Ne riporto qui solo una parte, soffermandomi a fare alcune considerazioni. Nel 1652, Papa Innocenzo X, con la bolla datata 15 ottobre, decretò la soppressione di tutti i monasteri e i piccoli conventi nei quali, a causa dell’esiguo numero di frati, non si osservava, né si poteva osservare, la disciplina religiosa.
Il Monastero dello Spirito Santo venne soppresso e l’allora Arcivescovo di Cosenza, Giuseppe Maria Sanfelice, ordinò ai parroci di Grimaldi di inventariare tutti gli oggetti esistenti nella chiesa. Con l’inventario, redatto il 23 aprile 1653, il priore, Padre fra’ Vincenzo De Filippis, consegnò ai parroci don Tommaso d’Epiro e don Perenzio Rollo tutto ciò che adornava i quattro altari presenti nella chiesa, tra cui un quadro dello Spirito Santo e un quadro “nuovo e piccolo” di Sant’Antonio da Padova, che erano esposti entrambi sull'altare maggiore, e una campana che era custodita nel muro esterno della chiesa. Tutti i beni inventariati sarebbero stati poi consegnati secondo le indicazioni dell’Arcivescovo.
Per evitare che la chiesa rimanesse vuota e senza cure, già nel 1653 fu fatto cappellano il sacerdote Giovambattista Schettini, il quale, il 25 ottobre, prese possesso del complesso monastico (fu il primo prete a farlo), ed esercitò questo ufficio fino al 1659, quando a lui si associò il sacerdote don Paolo Rogliano, il quale, morto Schettini, vi rimase fino al 1663.
In seguito a degli “imbrogli” fu mandato a Grimaldi l’Arciprete di Mangone, don Flaminio Grani, a prendere informazioni. La cappellanìa fu soppressa e poi trasferita nella chiesa parrocchiale, e si stabilì come impiegare le entrate del Monastero.
I cittadini di Grimaldi, allora, nel cercare di trovare un ordine religioso che dimorasse nel Monastero dello Spirito Santo, si rivolsero ai religiosi di San Francesco d’Assisi, precisamente ai Riformati, che “vivevano di sole elemosine”. Pertanto, nel febbraio 1662, i grimaldesi si obbligarono a rifare il Monastero e a contribuire al sostentamento dei dodici religiosi che vi andarono ad abitare il 5 luglio del 1665.
Ai frati vennero consegnati annualmente: sessanta forme di formaggio, cinquanta litri di olio, due maiali (per il grasso), trenta pezze di lana (per il vestiario). Inoltre: due tomoli di grano bianco al mese, un barile di vino a settimana, una pietanza ogni domenica ed ogni giovedì.
Nel 1702, i Riformati, “rifatto il Convento”, concessero un luogo, a loro non necessario, a una Congregazione, che fu denominata “delle stimmate di San Francesco”. Si trattò di una stanza situata alle spalle del coro.
Questa stanza potrebbe essere una di quelle presenti nel chiostro monastico adiacente alla chiesa, e precisamente quella più prossima al coro. Si presume inoltre, ma è solo una supposizione, che la statua di San Francesco d’Assisi, oggi custodita nella chiesa madre intitolata agli apostoli Pietro e Paolo, si trovasse anticamente proprio in questa stanza o comunque nella chiesa che oggi porta il nome di Sant'Antonio da Padova.
In realtà, un’altra statua del poverello di Assisi è custodita in una nicchia dell’abside, alle spalle dell’altare, tuttavia, la sua fattura si fa risalire alla fine del ‘700, periodo in cui la chiesa di Sant'Antonio subì delle profonde modifiche architettoniche, secondo i canoni dell’arte tardo-barocca.
Questo avvalorerebbe la tesi, secondo la quale, la statua di San Francesco d’Assisi della chiesa madre, si trovasse un tempo proprio al Convento.

Uscendo da via Bendicenti e attraversando per pochi metri a sinistra Piazza San Domenico, ecco Corso Umberto che porta a Piazza Morelli. Questo percorso a cerchio che racchiude un isolato di abitazioni, un tempo fu denominato “Rota”. Questo rione, cioè l’attuale Corso, fino al 1913 era completamente chiuso e non aveva alcuna uscita, se non alcuni portoni in comune dei quali si accedeva nelle abitazioni. L’allora commissario prefettizio, Cavalier Francesco Rossi, poiché le condizioni del luogo dal punto di vista igienico erano disastrose, tanto che si verificarono parecchi casi di tubercolosi e di tifo, previo pagamento di esproprio, furono aperti dei vicoli sull’allora via Regina Elena. Per quanto riguarda la disinfestazione e l’apertura dei vichi che dal Corso escono su via Bendicenti, ex via Regina Elena, si notano alcuni antichi portali in tufo e le travature delle antiche abitazioni che furono sventrate ed alcuni archi in laterizi che ancora resistono al tempo.
Su Corso Umberto vi sono gli antichi palazzi Cardamone e Morelli. Quest’ultimo un tempo era denominato “Casa rossa” dal colore dell’intonaco di cui si notano ancora poche tracce rossicce.
Il capostipite della nobile famiglia Morelli, Bernardino, passò a Rogliano da Cosenza nel 1498 e fu segretario del re Federico d’Aragona. Sul volume già citato del De Cesare è riportato un sonetto scritto da Bernardino Martirani, segretario di Carlo V, sulle famiglie nobili di Cosenza, tra queste non manca il nome dei Maurelli o Morelli.

SONETTO DI BERNARDINO MARTIRANI,
SEGRETARIO DI CARLO V,
SOPRA ALCUNE NOBILI CASATE DI COSENZA

Ecco i figli di Grate antichi, e buoni
Maurelli, Migliaresi, e martirani,
Longhi, Rocchi, Materi, e Quattrimani,
Tilesi, Longobucchi, e Filraoini.

Son co’ Sirsali cavalieri à sproni
Sambiasi, Carolei, tarsi, e Marani,
e questi, che già fur Napoletani
Safelici, Gaeti, e gli Scaglioni.

I Cavalcanti venner da Fiorenza,
E da Perruggia vennero i Beccuti
I Britti, et i Caselli da Rossano.

Queste son le famiglie di Cosenza,
Ch’illustran questi monti, e questo piano,
E fur’i primi à portar lancie e scuti.

Altre notizie storiche sono tramandate da Tommaso, zio di Donato Morelli. Questi fu sindaco di Rogliano e Senatore del Regno d’Italia. Ospiti del casato furono il Re di Napoli Ferdinando II di Borbone e Teresa Isabella d’Austria e al tempo della spedizione dei Mille, Giuseppe Garibaldi. Questi, nel corso del saluto al popolo roglianese, abolì la tassa sul macinato, ridusse la tassa sul sale e quella celebre sugli usi civici.
“Per questi avvenimenti, fatto salvo ogni giudizio storico su di essi, questo palazzo fu il luogo canonico in cui si conviene che la Calabria nasca politicamente all’Italia”.
Dello stesso palazzo, purtroppo, per un periodo di tempo fu ospite, non desiderato, l’Intendente borbonico De Matteis, il quale si comportò in modo dispotico nei riguardi dei cittadini che venivano arrestati e torturati perché contrari al governo borbonico.
Il modo selvaggio con cui venivano eseguite le torture verso i prigionieri, spinsero il padrone di casa ad intervenire in modo corretto e civile, pregando l’Intendente di risparmiare ai suoi familiari le scene di terrore. Il De Matteis rispose in modo arrogante, dicendo: “che era padrone di quella casa e si occupava nel servizio del suo Sovrano”. Per le sue nefandezze il De Matteis detto il “Verre delle Calabrie” e “maturo per la casa dei pazzi”, fu condannato a morte con altri suoi aguzzini. Una delle sue vittime fu Saverio Altomare, ufficiale della Guardia civica roglianese, tanto che fu costretto ad emigrare.

a piazza San Domenico ha inizio il viale “Antonio Guarasci” già denominato un tempo “Regina Margherita”.
Il cambiamento del toponimo avvenne negli anni ’70 del secolo scorso, in ricordo del primo Presidente della regione Calabria, roglianese, tragicamente scomparso nei pressi di Polla sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, nel compimento del suo lavoro.
Il viale porta al rione Cuti. Nel corso del tempo lo stesso ha cambiato faccia e nome.
In una mappa catastale del 1873, questo pezzo di strada tutta dissestata e polverosa era chiamata “Borgo Nuovo”, forse perché si aveva intenzione di renderla più vivibile e più bella, ma ci volle la fine degli anni ’20 e ’30 del secolo scorso perché fosse asfaltata dalla ditta Puricelli.
Poche, su questa strada, erano le abitazioni, alcune risalenti ai secoli XVIII o XIX come il palazzo Domanico, proprietà della famiglia Stumpo.
Non esisteva affatto la villa comunale, prospiciente al viale suddetto, dove fu luogo destinato a mercato domenicale e tra l’altro alla vendita dei maiali; la zona fu anche adibita a deposito della spazzatura e in seguito, dopo il risanamento igienico, nel 1912 fu sistemato il monumento a Donato Morelli, senatore del Regno d’Italia, opera dello scultore Ferdinando Vichi e nel 1924, come già ricordato, ebbero inizio i lavori di tutta la villa comunale.
Il viale Guarasci fino agli anni ’50 dello scorso secolo era aperto in gran parte e soprattutto nel rione Cuti, verso la valle del Savuto ed era particolarmente piacevole il colpo d’occhio che offriva durante le belle mattinate primaverili ed i meravigliosi tramonti, gradevoli anche dal punto di vista estetico.
La zona cosiddetta “Baracca”, fu dotata da una serie di colonnine e sedili e durante la stagione estiva, poiché la temperatura lo consentiva, era godibile trascorrere le belle ore serali al chiaro di luna. La bellezza è scomparsa da più di mezzo secolo e il viale è stato stravolto e ridotto in un budello.

 

L’elemento naturale e minerale caratterizza, fin dai primordi, la storia di Cleto, connotando i siti sui quali varie civiltà e popolazioni si sono insediate, sviluppate e susseguite, finendo per influenzarne le stesse attività.
Gli stanziamenti umani nel territorio di Cleto sono piuttosto risalenti. Tracce notevoli di insediamenti sono state rilevate nelle località di Pantano e Marina di Savuto. Nella zona è, quindi, attestata una continuità di frequentazione già dal Bronzo medio. Il territorio in questione, scrive Armando Orlando, «posto tra la foce dei fiumi Savuto e Oliva, ricco di approdi, percorsi fluviali, pianure coltivabili e difese naturali», si è rivelato «adatto all’insediamento umano fin dall’antichità più remota». L’area, infatti, «diventa punto strategico per il controllo delle vie di passaggio e per lo sfruttamento di risorse minerarie».
La documentazione e la repertazione archeologica dimostrano come l’area di Cleto contribuisca «alla cultura materiale diffusa in Calabria durante la prima Età del Ferro». Il territorio di Cleto, quindi, si configura come un rilevante ambito archeologico, situata in una fascia geografica della Calabria connotata da nuclei sparsi orbitanti tra le attuali Amantea, Nocera Terinese e Serra d’Aiello, a cavallo delle province di Cosenza e Catanzaro.
Un territorio che, in età magnogreca, manifesta attivismo relazionale, culturale e produttivo, contribuendo decisamente al dinamismo della Calabria tirrenica, nonostante il protagonismo delle città prossime di Temesa e Terina. I rapporti e le frequentazioni, infatti, si spingono oltre la costa tirrenica e l’entroterra più prossimo, sfiorando persino il versante ionico. Quest’ultimo è raggiunto attraverso la direttrice fluviale del Savuto, che consente di allacciare e mantenere le comunicazioni con la Sibaritide attraverso la valle del Crati.
A quella fase storica, è legato il mito fondativo di Cleto, una leggenda ricca di fascino e mistero orientata ad edificare ed accreditare l’identità greca della comunità. Le fonti mitografiche fanno riferimento al popolo guerriero delle Amazzoni. In particolare, l’amazzone Cleta, dopo la fuga da Troia della regina Pentesilea, di cui era nutrice, si mette in mare per raggiungerla. Durante la navigazione, venti contrari la sospingono sulle coste della Calabria, dove fonda una città a cui impone il suo nome e sulla quale installa una lunga dominazione. Oltre a dare il nome alla città, Cleta stabilisce un regime ginecocratico: le future regine porteranno il suo stesso titolo e nome e la città dovrà essere governata da un consiglio di sole donne. Le fonti sono rare ed attestano, nel 534 a.C., l’alleanza di Cleta con Temesa; la stessa è assediata dai Crotonesi. Dopo di che, le tracce di Cleta si diradano e progressivamente si eclissa.
Una città scomparsa cui è, tuttavia, legata non solo la toponomastica ma l’identità stessa dell’attuale Cleto. È arduo stabilire se, nella Calabria successiva alla caduta di Roma ed occupata da barbari e forze straniere (Longobardi, Bizantini, Musulmani), le terre di Cleto siano state abitate da genti sparse o da popolazioni stanziali. In ogni caso, il sito, che si costituisce su una rocca impenetrabile e sul versante di una rupe scoscesa, ricco di grotte naturali ed attraversato da corsi d’acqua, suggerisce una continuità di frequentazioni. Si potrebbe ipotizzare una nuova primavera cletese in epoca bizantina, caratterizzata dalla probabile presenza di un castrum ossia di una fortezza: ciò alla luce della «efficace gestione agricola del territorio, incentrata essenzialmente sulla produzione cerealicola e documentata dalla presenza di unità abitative rupestri, grotte, cisterne, silos e residui di un percorso viario in pietra». L’area necessitava, infatti, di un nucleo difensivo, apparendo, al tempo, come una riserva cerealicola, un “immenso granaio”. Non a caso, di silos e cisterne per la conservazioni di materie prime e prodotti agroalimentari, è ricco lo stesso castello. Un castello che testimonia la fase medievale dell’abitato cletese. Con l’avvento dei Normanni nell’XI secolo, la Calabria è oggetto di un attento piano strategico. Si edificano imponenti opere di difesa, all’interno delle quali si radunano “armati e popolo”. Il castello risponde ad una precisa logica militare e di difesa del territorio: è innalzato a presidio delle principali arterie di comunicazione oppure a tutela di nuclei abitati. Le indagini eseguite sul fortilizio cletese paiono indicare diverse fasi di edificazione della struttura, che segue le condizioni del terreno. Ciò è sintomatico della millenaria influenza, del condizionamento e dell’adattamento dell’uomo all’elemento roccioso. Lo stesso dicasi per il castello di Savuto, oggi nel comune di Cleto, costruito dagli Angioini sulla sponda settentrionale del fiume omonimo, posto a guardia delle vie di comunicazione che dal mare risalgono verso l’interno.
Quanto al profilo religioso, terminata in Italia la dominazione bizantina, i Normanni avviano una decisa e capillare azione di latinizzazione del territorio. Le chiese sono restituite al rito latino. Cosicché la diocesi di Amantea, sede episcopale vacante, nel 1094 è subordinata «alla santa chiesa Tropeana della Beata Maria e al primo Vescovo latino di nome Iustego», assumendo il titolo di “Dioecesis Inferior”. Identico destino tocca al territorio cletese, collocato sotto la giurisdizione vescovile amanteana, che si lega alla chiesa tropeana per ben nove secoli.
Cleto risorge vistosamente nella prima metà del XIII secolo, durante il regno svevo di Federico II, l’imperatore che stupì e cambiò il mondo ed attribuì un nome nuovo al paese: Petramala. probabilmente derivato dalla particolare conformazione geologica del luogo. La pietra, dunque, è talmente importante da determinare non solo la denominazione dell’area ma addirittura il cognome della famiglia feudale. E sotto il nome di Petramala, la città conquista un posto di rilievo fra i centri della costa tirrenica. Un ruolo rilevabile nei Registri Angioini del 1276 e che manterrà nei secoli a venire.

Beh... quando si parla dell'altopiano silano, vengono subito in mente storie di briganti calabresi. E il più famoso di questi briganti, un po' fuorilegge e un po' Robin Hood, è Giosafatte Talarico, che rubava ai ricchi per donare ai poveri. Per circa vent'anni regnò nella Sila e nei paesi silani (per questo viene chiamato "Il re della Sila"), non solo temuto, ma anche stimato, tanto che la sua memoria è ancora viva nella nostra terra. La zona teatro delle sue gesta brigantesche è quella compresa tra le province di Catanzaro, Cosenza e Crotone, da Panettieri a Camigliatello, a Petronà (Catanzaro), a San Giovanni in Fiore. In lui la forza si accoppiava all'astuzia, il coraggio alla prudenza, la ferocia alla bontà, il furto alla carità, la rozzezza ad una certa cultura. Nato nel 1807 a Panettieri (piccolo comune in provincia di Cosenza, anzi il più piccolo comune della Calabria), aveva dapprima studiato in seminario per diventare prete, poi si era dato a studiare farmacologia, diventando praticante nella farmacia di don Gaetano Rimola a Cosenza. Ma, come diventò brigante? Nel 1823, ritornò al suo paese natale per affrontare un giovanotto locale, don Luigi Sperandei, ricco e presuntuoso, che aveva sedotto sua sorella Carmela. Giosafatte, poiché il giovane aveva macchiato l'onore di casa sua, lo minacciò affinché sposasse la ragazza, ma inutilmente: infuriatosi alle risposte beffarde dell'uomo, lo colpì diverse volte con un pugnale davanti alla Chiesa (era di domenica e vi si celebrava la Santa Messa), uccidendolo. Si diede allora alla macchia, rifugiandosi in Sila.
Delle sue innumerevoli avventure, ne ricorderemo solo qualcuna. Nel 1830, una sera si presentò da solo a casa del parroco di Pedace, Giuseppe Riparelli e lo costrinse a restituire i 500 ducati estorti con l'inganno ad una giovane contadina di nome Filomena e li restituì alla donna come dote per il matrimonio. Nel 1835 andò al Teatro di Cosenza per assistere, travestito da nobile, all'esibizione del famoso soprano Caterina Longoni. La sera si mescolò agli invitati alla cena tenuta dopo la rappresentazione, rapì la Longoni davanti a tutti e la portò con sé sulla Sila per 8 giorni.
La sua leggenda cresceva, perché continuava ad aiutare le persone in difficoltà: era il paladino non solo dei poveri, ma anche dei vecchi, delle donne e dei bambini. Contemporaneamente, aumentava anche la taglia per la sua cattura: gli davano la caccia guardie urbane, guardie forestali, gendarmi e reparti dell'esercito borbonico, ma non fu mai preso e così la sua banda, poiché erano protetti da religiosi e dal popolo. Lo scrittore calabrese Nicola Misasi scrisse di lui: "Il certo è questo, che il suo nome, nome di malfattori, qui da noi è ricordato con lode più che con biasimo, come quello di un protettore del povero contro il ricco, del debole contro il forte".
Nel 1844, il re delle Due Sicilie, Ferdinando II di Borbone, su suggerimento del ministro Del Carretto, iniziò una trattativa segreta col famoso brigante offrendogli, in cambio della resa, una pensione di sei ducati e una modesta dimora nell'Isola d'Ischia che il brigante accettò, a patto che anche alcuni suoi compagni fossero perdonati e trattati allo stesso modo. Così pose fine alle sue gesta e si ritirò nel suo esilio dorato a Ischia, dove morì, nel 1886, a più di ottant'anni.
La sua romantica leggenda continua.

Il fenomeno del brigantaggio calabrese, nel suo processo evolutivo, ha avuto due periodi di maggiore diffusione: il decennio francese (1806-1815) e quello postunitario (1861-1870). Alla invasione francese del 1806 e alla diffusione dei principi di "Liberté, egalité, fraternité" si opposero le vecchie gerarchie clericali e i loro alleati baroni, che temevano di perdere i propri privilegi. Essi, in nome della religione e del re, provocarono nelle popolazioni incolte e rozze atteggiamenti di rifiuto delle nuove idee e li invitarono a insorgere contro i Francesi. E così, nei primi anni dell'Ottocento, oltre alla spedizione del cardinale calabrese Fabrizio Ruffo, a cui parteciparono dei briganti, anche Inglesi e Borboni sostennero e pagarono bande di briganti per combattere i Francesi, ma soprattutto le loro idee. Le popolazioni, che vivevano in condizioni di estrema miseria e di ingiustizia sociale, spesso capirono ben poco di quello che avveniva. Il brigantaggio, quindi, fu una guerra contadina, dovuta soltanto in parte a uno spirito neoborbonico o clericale e determinata, soprattutto da attese di giustizia sociale ed economica.
Il 14 agosto 1806 l'esercito napoleonico entrò a Cosenza, da dove mosse per occupare la Calabria. La guerriglia contro i Francesi, comunque, continuò senza tregua. Stragi e vendette, razzie e distruzioni innestarono una spirale di odio con inaudite manifestazioni di violenza quotidiana. Occupanti e ribelli gareggiarono in ferocia. A distanza di mesi dall'insediamento di Giuseppe Bonaparte nel Regno di Napoli, la Calabria fu occupata ma non domata. Particolarmente forte fu lo spirito antifrancese in molte località della provincia di Cosenza, tra cui Rogliano, che svolgerà un ruolo di primo piano nei successivi moti liberali e nella risalita garibaldina verso l'Unità d'Italia. In queste località si verificarono agghiaccianti fatti di sangue, A Rogliano, le bande dei Gabriele e di Giuseppe Morelli, tra il 15 e il 17 agosto,misero a soqquadro il paese, depredando e bruciando molte case e uccidendo otto gentiluomini, Lelio Jusi con due figli, Tommaso e Bernardo Clausi, Tommaso Golia, Carmine Altomare e Vincenzo Tano, tutti appartenenti a famiglie benestanti. Le cronache riferiscono: "Né mancò lo spettacolo di teste tronche trionfalmente portate in cima di pali; e poi quello di rotolarsi delle medesime in piazza e sotto le case degli ammazzati, a cruccio dei parenti e ad universal terrore". In seguito, il brigante Gabriele venne catturato e impiccato in località "Forche" di Rogliano, così denominata in quanto zona di esecuzioni capitali per impiccagione.
Altre bande brigantesche, fra le più agguerrite, nella zona di Rogliano, nei primi anni dell'800, come si legge nel libro "Brigantaggio" di Antonio Manhes e R. Mc Farlan, furono quelle di Giacomo Pisano (detto "Francatrippa") di Pedace (o di Serra Pedace ancora non è acclarato) e di Paolo Mancuso (detto"Parafante") di Scigliano.
Il brigante Francatrippa conosceva perfettamente i luoghi intorno a Rogliano e riusciva ad evitare tutti i tentativi fatti per arrestarlo, sebbene Rogliano, paese di circa duemila abitanti, fosse occupato dai Francesi. Quando i Francesi cessavano di inseguirlo , ricompariva e scorazzava di nuovo nei dintorni di Rogliano, operando per Ferdinando IV di Borbone, re di Napoli e sfogando anche le proprie vendette. Nel settembre 1807 distrusse con un'imboscata un'intera compagnia di soldati francesi (circa 80), che attraversava le alte montagne della Sila da Catanzaro a Cosenza. Alla fine dello stesso anno, Francatrippa, inseguito continuamente dai Francesi, che volevano vendicarsi, non potendo più restare nei dintorni di Rogliano, cercò rifugio nel boschetto di Sant'Eufemia e, in seguito, si imbarcò su una nave inglese e raggiunse la Corte dei Borboni in Sicilia. Il suo posto venne preso da Parafante, che accolse i rimanenti briganti della sua banda e raggiunse una fama uguale alla sua. Il libro "Brigantaggio", citato precedentemente, narra alcuni avvenimenti riguardanti il brigante Parafante. Una volta, nel fondo che si trova in Contrada Carito nel comune di Parenti e di proprietà della famiglia di Morelli e di Sicilia di Rogliano, tagliò un bosco di querce molto esteso, poiché il padrone non gli aveva voluto mandare alcuni oggetti d'oro, che il brigante gli aveva chiesto. In un'altra occasione, inviò un biglietto a Vincenzino Morelli, chiedendogli duemila ducati; questi non acconsentì e, quando Parafante ricevette la risposta negativa, coni suoi compagni tagliò tutti gli alberi fruttiferi del fondo di Contrada Carito. Infine, riportiamo un'altra testimonianza su questo brigante. Il comandante della guarnigione francese della piccola città di Rogliano cercava con tutti i mezzi possibili di catturare Parafante. Un prete del posto andò dal comandante e gli disse che aveva delle importanti rivelazioni da fare; poiché notò che il comandante non aveva piena fiducia in lui, il prete gli mostrò alcuni certificati francesi, che lo dichiaravano buon patriota. Allora il comandante ascoltò il prete, che dichiarò di essere nemico personale di Parafante, a causa di un assassinio commesso dal brigante di un suo congiunto, e tutto ciò non gli impediva di avere relazioni con la banda, rivelazioni con le quali prometteva di far catturare il brigante dai Francesi, in modo semplice e ingegnoso. Infatti Parafante aveva catturato un cittadino di Rogliano e aveva chiesto un riscatto di mille ducati, che, in quella stessa notte, avrebbe dovuto incassare. Il comandante accettò e si decise che alle dieci una colonna di cento soldati, condotti dalla guida indicata, avrebbe teso l'imboscata. Alla guida fu dato appuntamento fuori città e, poi, con minacce e offerte di denaro, si riuscì a fargli confessare che il suo padrone, venduto ai briganti, non aveva altro scopo che allontanare da Rogliano la maggior parte della guarnigione francese, per permettere ai briganti di saccheggiare facilmente la città. Furono subito mandati quattro uomini per arrestare il prete, che, però, era già scappato. Dopo aver legato le mani dietro le spalle alla guida e guardandolo a vista, all'una dopo mezzanotte la colonna dei soldati francesi si appostò per tendere un agguato ai briganti, Quando si udì un grande rumore, che annunziava l'arrivo dei briganti, i Francesi fecero fuoco: uccisero dieci o dodici briganti ed altrettanti furono feriti. Gli altri briganti subito fuggirono, ma Parafante non era con loro, avendo seguito un'altra via.Come aveva detto la guida, le due colonne si dirigevano a Rogliano, con l'intenzione di saccheggiarla, ma i colpi di fucile dei Francesi e le grida dei briganti erano stati sentiti da Parafante, che credendosi tradito da qualcuno dei suoi ed anche perché braccato continuamente dai Francesi, decise di cambiare aria e per questo scelse di scorazzare nelle zone di Serrastretta e Decollatura nella provincia di Catanzaro.
Lo storico cosentino Coriolano Martirano, nella sua"Storia di Cosenza", dice che, agli inizi di luglio 1806, fece la sua comparsa in Calabria il brigante Michele Pezza, detto "Fra' Diavolo" ed accenna anche ad un saccheggio a Rogliano ad opera di questo brigante e dei suoi compagni.

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