di Antonietta Malito
Gente che sa vivere è il nuovo videoclip del cantautore Roberto Bozzo. Un lavoro intenso e autentico, girato interamente su un autobus in corsa, simbolo di un’umanità in viaggio, fatta di sguardi, gesti semplici e relazioni vere.
Il brano dà anche il titolo al primo album da solista dell’artista cosentino, uscito a gennaio: tredici tracce eseguite in quattro lingue e attraversate da sonorità che spaziano dal folk al reggae, dal country alla tradizione popolare.
Dopo una lunga esperienza con la rock band K-byte e con il Sabatum Quartet, Bozzo si racconta ora in una veste più intima e personale, senza rinunciare al valore collettivo della musica. A seguire, l’intervista integrale.
- Roberto, chi è la “gente che sa vivere”?
«Quelle persone che sanno trovare il tempo di respirare e di godere delle piccole cose in un tempo frenetico e privo di bellezza».
- Il sound di questa canzone ha una direzione nuova. È stata una scelta istintiva, tecnica, o un modo per avvicinarti ancora di più al cuore delle storie che racconti?
«Il sound è proporzionale al messaggio che deve essere semplice ma non facile, quindi mette insieme country e reggae, per un brano estivo con una forma-canzone che può arrivare a tutti, così da veicolare il messaggio che è importante per un approccio alla vita autentico e senza isterismi».
- Il videoclip si svolge interamente su un pullman, un luogo di passaggio, di sguardi che si incrociano per un attimo. Cosa rappresenta per te il viaggio? È la metafora di un cammino interiore?
«Il pullman rappresenta un microcosmo di piccoli gesti che scandiscono il tempo della vita in itinere per come in effetti è la nostra esistenza, mostrandoci, una volta in più, che ciò che conta è il viaggio e non la meta».
- Sei stato definito “tessitore di emozioni”. Ti riconosci in questa definizione?
«È una bella definizione che non so se merito, in realtà io cerco di contestualizzare le cose e le canzoni attraverso i messaggi che mi sento di voler dare in base a ciò che mi succede intorno, una sorta di metodo compositivo empirico».
- In un mondo che spesso premia la velocità e l’immagine, tu canti la lentezza, l’umanità, la gentilezza. Come nasce in te questo sguardo controcorrente? È un atto politico, spirituale, o qualcosa di più personale?
«Sono un cantautore che ha deciso di restare in Calabria proprio perché è una terra che, tra le mille difficoltà, ancora ti dà l’opportunità di vivere le cose con un tempo psicologico lento, cioè fatto di piccole cose, di profumi, di sapori che si intrecciano coi sogni: quelli non ce li può togliere nessuno. Quindi, scandisce le nostre giornate lentamente, dandoci la possibilità di scindere le cose e separare il concetto di felicità da quello di realizzazione, ci dà dunque una prospettiva dell’essere sull’avere. Il disco rappresenta, così come la canzone, una condizione di subalternità però guidata dalla dignità e dalla pulizia d’animo».
- Pensi che, oggi, vivere con autenticità sia un atto rivoluzionario?
«L’anormalità dell’essere normale è ciò che fa di me un rivoluzionario, cioè uno che facendo scorrere le cose combatte senza armi e senza far rumore».
- Quest’anno, il Sabatum Quartet compie vent’anni: un traguardo importante. Cosa ha significato per te crescere con questo progetto e cosa sogni ancora di costruire insieme?
«Sabatum Quartet è il progetto che ho pensato di realizzare riportando la lingua dei padri in primo piano. Dopo 15 anni di rock in giro per il mondo con i K-byte, ho sentito il desiderio di fare qualcosa di identitario in quanto calabrese, ed è stato un esperimento riuscitissimo che ancora va avanti, e sarà così fino a che ci sarà voglia di raccontarsi e di raccontare la vita in musica. Del resto, i K-byte iniziarono nel 1990 ed esistono ancora e sono parte dei Sabatum, che vanno avanti dal 2005. Io, come solista, ho cominciato da poco, ma è come se ci fossi da sempre perché l’approccio è sempre stato quello di raccontare e raccontarsi in musica, cercando di non essere ripetitivo, quindi esplorando sempre nuovi mondi musicali».