CELLARA
"'A porta russa"

Nella parte alta di Cellara, ci sono i ruderi di una porta in mattoni rossi, di cui non si conoscono le origini.
Secondo un racconto popolare, il colore sarebbe stato causato dal sangue delle persone che, in passato, i briganti uccidevano in quel luogo.

 

GRIMALDI
Il tesoro del monte Santa Lucerna

Grimaldi sorge alle pendici del monte Santa Lucerna. Si racconta che, all'interno di questo monte, sia nascosto un tesoro, difeso da un serpente molto pericoloso. Durante le notti di luna piena, un gallo d'argento canta per alcuni minuti. Poi arriva una chioccia con sette pulcini, che grattano con le zampe nel terreno del monte, per scovare qualcosa da beccare. Chi riesce a prendere il gallo, la chioccia con i pulcini e a uccidere il serpente, troverà il tesoro.

"U spascinu"

La notte di Natale è possibile imparare il rito de "u spascinu" ("l'affascino"), che si dice aiuti le persone, colpite dal malocchio, a guarire.
Nonostante viviamo nel XXI secolo, questo "rito popolare" è pieno di fascino, per il fatto di aver attraversato secoli, convinto generazioni ed essere entrato a far parte dell'"identità culturale" di alcune regioni.
La notte dell'Epifania
Si narra che la notte dell'Epifania gli alberi si coprono di frutti e gli animali parlano.

 

MALITO
"L'acqua muta"

La notte di Natale, le donne di Malito, coperte da un velo nero, andavano a prendere l'acqua alla fonte chiamata dell'"acqua muta". Durante il tragitto per recarsi alla fonte, le donne malitesi non potevano rivolgere alcuna parola alle persone che incontravano, né potevano farsi riconoscere. Chi si faceva riconoscere, infatti, non poteva approvvigionarsi dell'acqua, che era considerata utile contro tutti i mali, perché presa la notte dell'Avvento, considerata miracolosa.


"'U rijiolu" ("L'orzaiolo")

Secondo un'antica credenza popolare, per guarire questa infiammazione della palpebra, bisognava passare sull'orzaiolo una chiave e la cruna di un ago, disegnando una croce.
Chi ne era colpito, inoltre, ogni mattina, fino alla guarigione completa, doveva guardare dentro una bottiglia di olio d'oliva.
(3-continua) 

Giuseppe Pizzuti, docente

 

 

APRIGLIANO
Il fidanzamento

Un tempo, ad Aprigliano, per chiedere la mano della sposa, si usava "u cippu". L'innamorato, di notte, metteva un tronco d'albero molto grande ("u cippu") davanti alla porta della ragazza prescelta, come segno della dichiarazione d'amore. Se la ragazza portava "u cippu" dentro la casa,la risposta era positiva; in caso di rifiuto della richiesta d'amore, "u cippu" veniva lasciato fuori della casa.

Il porto fluviale

Il fiume Crati occupa un posto di rilievo tra i luoghi del mito, perché il suo nome è associato a leggende e storie dell'antichità, di cui fonti remote hanno conservato traccia. Nella frazione di San Nicola (Aprigliano),lungo il fiume Crati, si narra che esisteva nell'antichità un porto fluviale. Anche lo scrittore latino Plinio il Vecchio (I secolo d.C.) afferma che il Crati fosse un fiume navigabile. Questo posto sarebbe potuto essere un punto di snodo per l'approvvigionamento di legname.

 

CARPANZANO
Il dipinto miracoloso

I Carpanzanesi tramandano di padre in figlio un racconto sull'origine del Santuario intitolato a Maria SS. delle Grazie. Sembra che, quattro secoli fa, padre Bonaventura Pontieri (allora parroco) si sia recato a Napoli da un pittore e gli abbia commissionato un dipinto con l'immagine della Madonna con il Bambino, lasciandogli anche una tela. Dopo qualche tempo, ritornato a Napoli per ritirare il quadro, il pittore disse di non aver potuto svolgere il lavoro perché aveva perso la tela. Allora padre Bonaventura cominciò a cercare la tela nella confusione della bottega e, infine, la trovò. Durante il viaggio di ritorno, incuriosito, la srotolò e vide l'immagine della Madonna sulla tela. Tornò dal pittore e voleva pagarlo, ma lui rifiutò dicendo di non aver mai dipinto quel quadro. Quando padre Bonaventura arrivò a Carpanzano, mise il quadro nel convento. Nei giorni successivi, il quadro sparì tre volte e fu sempre ritrovato in un cespuglio di rovi, in località Timpone. I fedeli, credendo che quello fosse il luogo scelto dalla Madonna per sua dimora, vi costruirono una piccola cappella, proprio nel punto in cui oggi si trova il Santuario.
I Carpanzanesi sono molto devoti a questo quadro, perché, nel 1905, si rivolsero alla Madonna dipinta per essere salvati dal terribile terremoto, che distrusse molti paesi della Valle del Savuto. E ancora oggi, il 12 febbraio, in segno di devozione, si svolge (qualunque siano le condizioni atmosferiche) una processione in onore della Madonna.

Il paese delle "zagarogne"

Carpanzanoè conosciuto anche come il paese delle "zagarogne" ("le civette"). A questo riguardo si racconta che, un tempo, durante la celebrazione della Santa Messa, il prete, nel prendere il calice e le ostie dal tabernacolo, venne pizzicato da una civetta, che, probabilmente, si era nascosta lì durante la notte. Il sacerdote, tra il serio e lo scherzoso, disse: "Cristu sdegnatu pizzica e muzzica cumu n'arraggiatu" ("Cristo sdegnato pizzica e morde come una persona molto arrabbiata"). Questo fatto venne considerato come un cattivo augurio e da allora i Carpanzanesi vengono chiamati in modo offensivo "zagarognari".

Giuseppe Pizzuti, docente

 

Chi tena pocu s'accuntenta, chi tena assai se lamenta!
(Chi ha poco si accontenta, chi possiede molto si lamenta)                                                                                                                                               .

 

'U giuvine oziusu, quannu è vecchiu è bisugnusu!
(Il giovane ozioso, quando è vecchio avrà bisogno!)
Chi non semina in gioventù, non raccoglie in vecchiaia.                                                                                                                                                            

 

Anche quest'anno, il ventiduesimo, il calendario, realizzato da "Atlantide - Centro studi nazionale per le arti e la letteratura" di Rogliano, raccoglie nell'arco dei dodici mesi aneddoti, indovinelli, filastrocche, fotografie e immagini antiche, proverbi, racconti, ricette contadine, tradizioni legati alla nostra terra e alle nostre radici.
Il lavoro, edito in trenta pagine, vuole essere, nella maniera più diretta, un raccordo tra il nostro passato, presente e futuro.
Uno spaccato di Calabria ricca e umile e un insieme di avvenimenti e situazioni che rivivono attraverso il ricordo e il racconto delle persone più anziane che cercano di trasmettere alle nuove generazioni antichi usi e costumi che altrimenti andrebbero dimenticati.
Il Calendario del Savuto racconta il nostro tempo, attraverso il ricordo. E leggendo scopriamo tanti particolari e specifiche situazioni.
Ricordi e racconti da vivere per un anno intero e da lasciare e trasmettere ai tanti giovani che, spesso, rimuovono il loro passato e le loro origini come segno d'insofferenza.
Un progetto coraggioso che mira a tutelare i nostri decenni trascorsi e a prendere da ciò che siamo stati, che sono stati i nostri padri, i migliori insegnamenti per la vita futura. 

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Anticamente la maggior parte delle famiglie, ispirandosi al noto principio dell’ “economia chiusa”, secondo il quale ognuno doveva bastare a se stesso senza dipendere da nessuno (e ciò era anche possibile e facilitato dalla presenza, in quelle numerose famiglie patriarcali, di numerose braccia), la maggior parte delle famiglie, dicevamo, possedeva, negli orti adiacenti le abitazioni, un piccolo forno.
Quando si decideva di fare il pane, tutta la famiglia era “’mmuinata”. Erano giorni, assieme a quelli dell’uccisone del maiale, indimenticabili; pieni di riti e di significato.
Di giorno le donne cernevano la farina e la sera, prima di andare a letto, preparavano “’a levatina”. “Si vo’ videre a fimmina ‘mmuinata - diceva un detto malitese di quel periodo - quannu fa ru pane e ‘avucata”. Le pitte si infornavano e si sfornavano per prime, anche per mandarle in dono ai vicini e ai parenti. Si usava fare anche “’a pitta d’u mortu” così chiamata perché distribuita ai pezzenti a suffragio delle anime dei parenti morti. Poi si passava ad infornare il pane. Quello più buono e più fragrante veniva subito restituito a chi lo aveva dato in prestito. “Pane e levatu se renna miglioratu”, si diceva.
Numerosi erano anche i forni pubblici sparsi per il paese nei cui locali si raccoglievano, soprattutto durante il periodo delle “’ntrite”, numerose donne con i loro figli e dove, molto frequentemente, si raccontavano delle interminabili “rumanze”, soprattutto nei lunghi periodi invernali...!
Fare la “fornara” è sempre stata una misera vita. “Te via fare ‘u furnu”, “Possa io vederti lavorare al forno!. Era questa l’imprecazione più maligna che anticamente si poteva augurare ad una donna. Vediamo come lo scrittore-prete Padula in “Calabria prima e dopo l’unità” descrive la “fornara”. “E’ sempre tinta e non sente mai messa; parla sboccato, bestemmia ed è in continua lite con le “vicennere”. Diconsi “vicennere” quelle che si servono sempre da lei ed hanno il diritto di mandare ad accendere la legna, cuocervi “tielle” gratuitamente e pigliarsi della brace. Se non che nei giorni buoni la stimano”.
La fornaia, infornando pane, riceveva, per ogni tavola, un pane e mai pitte; per ogni dieci biscotti, un biscotto; per ogni infornata di castagne o fichi, uno “struppellu” di castagne o fichi; per ogni dieci filari di “turdigliuni”, un filaro. Altre antiche regole erano le seguenti: chi era prima a servirsi del forno aveva diritto d’obbligare la fornara a riscaldarlo. Il resto delle frasche doveva essere messo da colei che faceva il pane.
Arnesi del forno
Un forcone per spingere le frasche; una pala grande per infornare le pitte; “nu scupazzu” per pulire il forno; un rastrello per tirare la brace; un “ceramile” da mettere sulla brace tirata avanti; la chiudenda, chiamata “tivula” e la rastrelliera per porvi le tavole; “’a majidda per shajanare”.

C'è un rione a Rogliano, il rione Donnanni, cui è legata una leggenda popolare, col tempo, divenuta tradizione.
Essa riguarda il toponimo del rione medesimo, che una leggenda riferisce appunto ad un “prodigio” compiuto da San Francesco di Paola. Il “prodigio” è il cosiddetto “miracolo dei ferri” e riguarda l'asinello Martinello, che accompagnava il Santo nel suo peregrinare per i vari centri e per i vari paesi e, in quell'occasione, forse anche per le terre e per i luoghi di Rogliano.
Si narra, nella città del Savuto, che San Francesco, giunto a Rogliano, sia passato per il rione Donnanni. Qui, imbattutosi nell'officina di un maniscalco, per ovviare alle difficoltà del proprio asinello Martinello, che aveva agli zoccoli dei ferri ormai vecchi e consumati, si ritiene che abbia immediatamente deciso di farlo ferrare. Pertanto, avvicinatosi al maniscalco, chiese che, per carità, approntasse dei ferri per il suo asino. Il maniscalco eseguì il proprio compito e, ferrato l'asinello, tese la mano al Santo perchè gli pagasse il lavoro. San Francesco gli disse che non aveva soldi e che per questo gli aveva chiesto quel lavoro “per carità”. Il maniscalco, però, pretendeva ugualmente il proprio compenso. Fu così che il Santo, non potendo pagare il lavoro della ferratura, si rivolse all'asinello e lo invitò a restituire i ferri, dicendogli in dialetto, secondo la versione più nota in loco, “duna e anna”, donde l'origine del toponimo Donnanni. Allora l'asinello, obbedendo al Santo, si sfilò dagli zoccoli i ferri e li fece cadere a terra, lasciando esterrefatto il maniscalco.
Non è facile stabilire le origini, in Rogliano, di tale leggenda, è certo tuttavia che essa si fece tradizione e venne tramandata nel tempo. Ne parla, nel proprio lavoro, il prof. Giuseppe Egidio Sottile, che vi ritorna con riferimenti e con particolari. Il prof. Sottile, nel narrare del rione Donnanni, non può fare a meno di delinearne gli aspetti e di riferire anche in merito al toponimo. “Di ritorno su piazza Morelli, - egli scrive – nelle sue adiacenze si entra nel rione Donnanni, che consiste in un raggruppamento di viuzze e rughe alquanto strette. Fu l'unico luogo roglianese che non subì gravi danni a causa del terremoto del 1638” (1). Riferendosi al toponimo, dopo aver ricordato che “si dice che derivi dal nome di una signora, 'Donna Anna', di famiglia altolocata, abitante nel luogo, che forse si distingueva tra l'altro per le opere di bene nei riguardi della gente povera e bisognosa e per la sua vita morigerata” (2), chiama in causa la leggenda legata al passaggio del Santo di Paola ed afferma quanto segue: “Il Santo, trovandosi in visita ai suoi monaci a Paterno (…) venne a Rogliano per diffondere la parola di Dio ed anche per cerca caritativa. Tra l'altro, essendo venuto a cavallo del suo asino, si sarebbe fermato vicino alla fucina di un fabbro ed ebbe bisogno di far ferrare la bestia. Dopo che ebbe compiuta l'opera, il fabbro chiese il prezzo da pagare per il suo lavoro. San Francesco, non avendo danaro, chiese al fabbro la carità. Avutane risposta negativa (…) intimò all'asino di lasciare i ferri e camminare (…) dicendo in dialetto: 'Duna e anna cioè: 'restituisci i ferri e cammina'” (3). A questo punto, il prof. Sottile si domanda: “Sarà stato il 'miracolo' del Santo di Paola a determinare il toponimo Donnanni?” (4). E, quindi, aggiunge: “La tradizione popolare ricorda ancora oggi il nome del fabbro: Mauanima (persona dall'animo cattivo), forse per come si rapportò con il Santo” (5). Infine, sente il bisogno, onde dare un ragguaglio completo della leggenda e della tradizione che vi è fiorita attorno, di fornire ai lettori anche notizie sulla fucina: “In uno dei vicoli del rione ('a rughicella) - scrive – si nota un vecchio scantinato, facente parte di una abitazione dissestata, che sembra fosse stata adibita a fucina di fabbro” (6).
Sì, si tratta di una leggenda che vive, da tempo immemorabile, nella tradizione locale, non v'è dubbio; quanto fascino, però, rivestono l'una e l'altra per chi le conosce e anche per chi ne sente parlare per la prima volta e, magari, si trova a passare per il luogo. In fondo, le tradizioni sono un po' il sale della vita dei popoli e, in certe occasioni e per determinate vicende, servono anche a rivestire del velo del “mito” la vita e la natura dei luoghi e delle comunità. Non si dimentichi, in verità, che il mito non è semplicemente una reminiscenza di “cose” (nel senso di “res gestae”) mirabili e lontane, sperdute nella notte dei tempi e tramandate da una tradizione oscura e remota, ma è qualcosa di più. Il mito, come scrive Stefano Casarino, “(muthos, da mùo, 'sto chiuso', nel senso di 'taccio, mantengo il segreto' con riferimento al divieto di rivelare i 'misteri' – si noti la comune radice) è, in buona sostanza, la 'parola sacra' (attenzione alla banale equivalenza mito = leggenda)” (7) e, pertanto, racchiude in sé l'anima e le radici d'un popolo, cui leggende e tradizioni rimandano, ed esprime, in un certo senso, il carattere stesso d'una comunità. Mito e leggenda, è vero, non sono la stessa cosa, ma attorno al mito, inteso appunto come scrigno dei “misteri”, spesso fioriscono leggende e tradizioni, che sono un po' la vita nascosta d'un popolo, una vita che ha una propria dinamica ed una propria vitalità e che, col tempo, va soggetta a varianti che il genio collettivo del popolo crea (direbbe il dott. Pasquale Rossi con riferimento al proprio lavoro Le Rumanze ed il Folk- lore in Calabria), aggiungendo o togliendo qualcosa al nucleo essenziale.
Mio suocero, Rocco Siclari, dal quale ho sentito, per la prima volta, la leggenda del “prodigio dei ferri” in Rogliano, narrava che, davanti all'insistenza con cui il maniscalco chiedeva di essere retribuito, il Santo di Paola si sarebbe rivolto all'asinello, che si era già avviato, dicendo: “unne anni?” o “duve anni?” (cioè “dove vai?”). Secondo la sua narrazione, quindi, il Santo non avrebbe detto al proprio asinello “duna e anna”, bensì “duve anni?” ovvero “unne anni?”, come ricordava appunto mio suocero in dialetto reggino, dialetto molto caro alla famiglia d'origine (il padre, Francesco Siclari, e la madre, Domenica Floccari, erano reggini, di Fiumara per la precisione, e si esprimevano in casa in dialetto reggino; di esso qualche termine era noto anche a mio suocero, benchè egli fosse nato nel catanzarese, a Decollatura, e poi si fosse trasferito, insieme con i familiari, a Rogliano). La versione di mio suocero costituisce una variante, sviluppatasi in loco, o è semplicemente il risultato del modo in cui i suoi genitori gliela tramandarono? Forse è giusto pensare che la tradizione fosse nota ai suoi genitori, i quali gliel'avevano tramandata, nel proprio dialetto originario, con una piccola variante. Ma essi l'avevano appresa nel proprio paese d'origine o a Rogliano? Sarebbe bello pensare che la leggenda roglianese avesse raggiunto il reggino e la si tramandasse anche in quei centri. È più giusto, però, ritenere che essi l'avessero appresa proprio a Rogliano dove, dopo un breve periodo trascorso a Decollatura, decisero di fermarsi definitivamente, fuggendo dal terremoto che aveva sconvolto il reggino. È facile pensare, a questo punto, che la leggenda relativa al rione Donnanni, a Rogliano, in passato fosse un motivo di rilevante importanza e piace pensare, altresì, che fosse una nota costante dei racconti, noti come rumanze, che allietavano le serate invernali, accanto al caminetto o al braciere. E fra le rumanze, quelle legate al tema sacro- religioso trovavano nel Santo paolano uno dei protagonisti, senz'altro il principale, e anticamente rivestivano un ruolo fondamentale nell'educazione dei bambini. Torna grato, pertanto, immaginare che, a Rogliano, la leggenda del passaggio di San Francesco dal rione Donnanni sollecitasse la fantasia non solo dei bambini, ma anche degli adulti.
In realtà, stando alla storiografia dei Minimi, almeno a quella più recente, il centro che conobbe il “prodigio dei ferri” dell'asinello sarebbe Lauria, come attestato anche dal lavoro attento e scrupoloso di Padre Giuseppe Fiorini Morosini. “Da Castelluccio – scrive testualmente Padre Morosini – Francesco e i suoi frati raggiunsero Lauria. Qui un altro prodigio segna il loro cammino; un prodigio che è entrato nel cuore della tradizione popolare e che ha condannato l'avarizia di una persona e insegna tuttora a quanti lo ascoltano la carità e la generosità. Un componente della comitiva (…) era un asino di nome Martinello. Gli si erano consumati i ferri (…) Francesco si fermò dinanzi alla bottega di un maniscalco e con molta umiltà (…) gli disse: 'Per carità, ferratemi l'asino'” (8). Il resto è storia nota. Il “prodigio”, allora, non riguarderebbe Rogliano, bensì Lauria e, pertanto, non dovrebbe avere alcun legame con l'etimologia del toponimo Donnanni. Toponimo a parte, l'eventualità o la certezza che l'evento prodigioso riguardi Lauria non tolgono, però, importanza e valore alla leggenda roglianese e alla tradizione locale, che ritengono che il “prodigio” si sia verificato nella città del Savuto.
In fondo importa poco se il “miracolo dei ferri” dell'asino sia avvenuto a Rogliano, nel rione Donnanni, o altrove. Esso è, comunque, legato alla tradizione roglianese e ne continua a far parte, pur se concretamente ormai si sa, e forse si è sempre saputo, che la verità è altra. Ciò, tuttavia, come scritto di sopra, non scalfisce per nulla e in nulla la “valenza” della leggenda roglianese che è ormai patrimonio dell'anima popolare. La leggenda, infatti, si sia o non si sia consapevoli del fatto che il “prodigio” potrebbe riguardare o addirittura riguardi Lauria, continua ad essere narrata e riferita proprio secondo il dettato della tradizione. Ed è bene che sia così, essa in fondo fa parte dell'identità d'un popolo e d'una comunità che, a prescindere dalla realtà della concreta manifestazione in loco del “prodigio”, lo riconoscono e lo sentono come radicato in quell'immaginario collettivo, cui hanno attinto le voci della tradizione e, quindi, tramandandolo di generazione in generazione, l'hanno anche consegnato, al tempo, come humus delle proprie radici.
Del resto ogni laggenda, appunto in quanto leggenda, non costituisce forse il sostrato su cui hanno abitato, attraverso i tempi, ed abitano ancora la fantasia ed il mito degli uomini e dei popoli? Attorno alle leggende si sono incontrati gli uomini e, elaborandole, hanno cercato di rivelare, con il contributo dell'immaginazione (fantasia) o (i più provveduti) con l'ausilio della “parola sacra” (mito), le origini di qualcosa (nel caso specifico le origini d'un toponimo, Donnanni) o gli aspetti d'un che di misterioso, provando, altresì, ad interpretarne il senso. Proprio in virtù di questo, la leggenda si trasforma, allora, in qualcosa di epico e, nel caso del “prodigio dei ferri” operato dal Santo paolano, quasi va a racchiudere e a svelare la lotta fra bene (San Francesco di Paola) e male (il maniscalco), lotta che, nell'evento prodigioso, si chiuse con la vittoria del primo. Il Santo, è vero, fece in modo che il proprio asinello lasciasse cadere i ferri dagli zoccoli, ma in fondo riuscì a toccare profondamente l'animo del maniscalco che, dopo aver assistito al “prodigio”, fece di tutto, anche se inutilmente, per poter ferrare di nuovo l'asinello.
La leggenda, pertanto, è importante non solo per ciò che narra, ma soprattutto per ciò che la narrazione opera e sul piano dell'elevazione individuale e collettiva e sul piano del continuo riaffacciarsi del senso di appartenenza ad un gruppo. In fondo stanno proprio in questo il significato ed il valore del “prodigio dei ferri” e, anche se non avvenuto a Rogliano ma altrove, è ugualmente importante che, per ragioni di radici e di identità d'una intera comunità. la tradizione popolare roglianese lo leghi ancora al rione Donnanni. 

 NOTE

1) Cfr. Giuseppe Egidio Sottile, Luoghi di Rogliano tra etimologia e storia - Il paese, i rioni, il contado, prefazione di Eugenio Maria Gallo, Atlantide Edizioni di Fiore Sansalone, Rogliano, agosto 2005, p. 63.
2) Ivi.
3) Ivi.
4) Ivi.
5) Ivi.
6) Ivi, pp. 63- 66.
7) Cfr. Stefano Casarino, Epica: la madre di tutti i generi in Nuova Secondaria Mensile di ricerca, cultura, orientamenti educativi, problemi-didattico- istituzionali per le scuole del secondo ciclo di istruzione e formazione, anno XXXII n. 1 Settembre '14, p. 28.
Cfr. Giuseppe Fiorini Morosini, S. Francesco di Paola vita, personalità, opera Curia Generalizia dell'Ordine dei Minimi, Roma 2006, p. 169.

BIOGRAFIA

Giuseppe Egidio Sottile, Luoghi di Rogliano tra etimologia e storia - Il paese, i rioni, il contado, prefazione di Eugenio Maria Gallo, Atlantide Edizioni di Fiore Sansalone, Rogliano agosto 2005.

Giuseppe Fiorini Morosini, S. Francesco di Paola vita, personalità, opera Curia Generalizia dell'Ordine dei Minimi, Roma 2006.

Stefano Casarino, Epica: la madre di tutti i generi, in Nuova Secondaria Mensile di ricerca, cultura, orientamenti educativi, problemi-didattico- istituzionali per le scuole del secondo ciclo di istruzione e formazione, anno XXXII n. 1 Settembre '14.

 

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